Cambi valutari e ripresa economica

Dai focus delle ultime settimane appare sempre più evidente come la ripresa economica possa dipendere anche dal modo in cui verranno orientati i cambi valutari. Appare chiaro – e già toccato con mano più volte nel recente passato, anche in ambito europeo – che svalutare la moneta significa rendere meno costosi i propri beni sui mercati esteri, a vantaggio delle esportazioni e dunque della produzione interna e, in ulteriore istanza, del mercato del lavoro.

Quanto sopra è quanto accaduto nell’area euro, che nel 2015 ha beneficiato dell’indebolimento dell’euro dell’ordine del 10% contro il dollaro Usa, lo yen e il franco svizzero (più lieve, ma pur sempre superiore al 5%, il calo contro la sterlina inglese), il quale ha contribuito quasi interamente al +0,7% del Pil italiano ottenuto lo scorso anno.

Sempre in ambito euro, è altresì chiaro che vi sono altri spazi per nuove svalutazioni, ma i margini si stanno riducendo gradualmente: tant’è che oltre alla Bce, anche altre banche centrali (come la Banca centrale giapponese) hanno varato le proprie politiche di stimolo monetarie, mentre la Bank of England si sta limitando a mantenere in vita il proprio pur non producendo più nuova moneta. Sempre nel 2015 tante banche centrali hanno tagliato il costo del denaro per contrastare il rallentamento dell’economia.

Quanto sopra non è avvenuto, evidentemente, negli Stati Uniti, dove la Federal Reserve è praticamente l’unica principale banca centrale al mondo che si muove al momento in controtendenza (presto potrebbe però accodarsi anche la Gran Bretagna, se le condizioni dovessero migliorare).

Una strategia, quella di cui sopra, non priva di rischi: le aspettative di nuovi rialzi per il 2016 hanno generato deflussi di capitale dai Paesi emergenti, accendendo nuovi campanelli di allarme sulla crescita degli utili di Wall Street, già in rallentamento…

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